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Mag 2011
Numero N. 134
Rinasce l’Iri? Il mercato piange
La nostalgia della politica per il ritorno del capitalismo di Stato è oggi forte in Italia. Si vuole limitare la contendibilità di aziende di “rilevante interesse nazionale”. Ma bisognerebbe raccontare la realtà di chi acquista i prodotti e utilizza i servizi, cioè del mercato!

L'attuale irresistibile desiderio di italianità delle imprese è sfociato nell’articolo 7 del decreto omnibus che consente alla Cassa depositi e prestiti di “assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del paese”. Fin dalla trasformazione della Cassa in società per azioni nel 2003, si paventava il pericolo della nascita di una nuova Iri. In realtà la Cdp è una banca, trattata come un intermediario finanziario per sottrarla alla penetrante disciplina prudenziale delle partecipazioni prevista per le banche.
Con la nuova disciplina, si va oltre il normale private equity, consentendo l’acquisto di asset in imprese le cui caratteristiche di strategicità saranno, oltretutto, individuate direttamente dal ministro del tesoro. E l’acquisto potrà avvenire anche mediante risorse provenienti dalla raccolta postale: le partecipazioni andranno contabilizzate separatamente senza offrire alcuna garanzia di separazione patrimoniale, perciò pericolosamente in bilico sulle nostre tasche. Quindi tutti noi scivoleremo lungo la china di una statalizzazione “forzata” con vari miliardi di euro messi sul piatto.

Il fascino del capitalismo di Stato si dissolve rapidamente. Molteplici gli esempi nel passato - dalle battaglie tra la Sip e l’Asst, azienda di stato per i servizi telefonici e telegrafici, alla televisione via cavo - che testimoniano come le aziende pubbliche abbiano spesso intralciato lo sviluppo di alcuni settori chiave dell’economia e dell’industria italiana (vedi "L’azionista Stato impoverisce le aziende").
Ricordiamo che gli investimenti stranieri in Italia sono ben al di sotto di quelli presenti in Francia e Germania, per non parlare dell’Inghilterra, e correttamente ci lamentiamo delle molte ragioni che ci rendono poco attrattivi. Ragioni che, purtroppo, le nostre imprese devono continuamente superare!
Se determinate aziende nostrane diventano facilmente “preda” di gruppi stranieri dipende dalla debolezza del nostro sistema produttivo, caratterizzato da imprese piccole. Un esempio è proprio Parmalat: poche sono le aziende italiane del settore le cui condizioni economiche e finanziarie consentono loro di assumerne la proprietà. E ciò si verifica anche in altri settori economici.
Cio’ autorizza lo Stato a rivestire il ruolo di finanziatore, anzi di meta-fondo di private equity che, però, non risponde alle regole del mercato? Io ritengo di no e credo di più nelle forze del mercato incanalate in una corretta normativa.

Se vogliamo, infine, raccontare le cose dalla parte di chi il latte lo beve, il credito lo utilizza, l’energia la consuma, i trasporti li adopera, sarebbe un grave errore chiudere le porte alle aziende straniere perché non è detto che queste non possano offrire a famiglie e imprese ciò che veramente conta: prodotti e servizi migliori, a minor prezzo.
In un mondo dove, dopo il pronto soccorso post-crisi, i governi sono impegnati a tornare al proprio mestiere - ridurre gli interventi di emergenza e governare la crescita ridando fiducia alle economie – in Italia si risente l’atmosfera stantia dei campioni nazionali, adesso abbellita da mirabolanti richiami patriottici.


Parole chiave: economia



Azione: fa attenzione al livello di Stato che le manipolazioni portano nel tuo mercato
Parola Chiave: economia
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Risultati ad oggi
Come imprenditore e top manager, ritiene che il capitalismo di Stato sia oggi necessario a imprenditori e aziende italiane, tuttora deboli rispetto agli omologhi dei grandi paesi europei?
10 %
(specifichi nello spazio riservato al suo parere)
81 %
no (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
0 %
non so (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
5 %
altro (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
Quali sono a suo parere i principali fattori che inficiano oggi la competitività delle imprese italiane?
10 %
mancanza di regole certe
38 %
mancanza di un supporto infrastrutturale adeguato nel Paese
24 %
mercati non sufficientemente liberalizzati
0 %
mercato nazionale troppo aperto alle importazioni da Paesi a basso costo del lavoro
24 %
normativa che penalizza il capitale di rischio
0 %
altro (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
Piuttosto che riproporre modelli di chiara matrice statalista, cosa potrebbe fare secondo lei lo Stato italiano per rilanciare il tessuto connettivo dell’imprenditorialità?
5 %
definire un sistema di regole certe e uguali per tutti i concorrenti nei diversi settori
14 %
applicare adeguatamente il sistema di regole esistente
24 %
favorire il grado di apertura e di liberalizzazione dei mercati
5 %
favorire la privatizzazione dei settori ancora prevalentemente in mano pubblica
43 %
rendere più favorevole il sistema fiscale per le imprese e il capitale di rischio
0 %
non so (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
0 %
altro (specifichi nello spazio riservato al suo parere)
(*) La percentuale è riferita al totale dei votanti

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20/07/2012 06:04:59

La Germania fa +4,8 nel primo trimestre (2011 su 2010) e noi facciamo +1! Ci ha messo dieci anni a ripartite: ha affrontato la bolla immobiliare post-riunificazione, ha tagliato i salari e ristrutturato l'industria. E' forte negli impianti e nei beni di consumo durevoli molto richiesti dai paesi emergenti. L'unica consolazione che trainera' anche Italia e Francia...e Tremonti ci sa proporree solo la nuova Iri!
<i> 5/14/2011 17:32</i>

può essere un aiuto a breve ma paralizza nel medio lungo
<i>Gianni Boscolo 5/11/2011 14:9</i>

alle aziende, soprattutto imprenditoriali, occorre una capacità di visione globale e gestione manageriale; lo Stato deve metterle in condizione di poter mantenere gli investimenti in Italia (benchmark capacità di attrattività verso altrri paesi)
<i> 5/10/2011 22:43</i>

Invece della nuova Iri cosa dovrebbe fare lo stato italiano? Cosa abbiamo fatto noi per superare la crisi? Abbiamo ristrutturato le nostre aziende con successo e ne sappiamo qualcosa di prima mano. Ciò che abbiamo fatto è stato di concentrarci sul core business, nel quale essere i "migliori" in assoluto, e rinunciato a tutto il resto. Parallelemente lo stato dovrebbe definire il proprio core business e cancellare quello che è fuori. Si può calcolare che se core business fosse sanità, giustizia, istruzione, ricerca, beni culturali, assistenza, difesa e ordine pubblico allora potremmo risparmiare il 20% della spesa pubblica. Una cifra enorme (oltre 150 mld di euro sui quasi 800 di spesa pubblica) per rilanciare la competitività dell'Italia. Lo abbiamo fatto nelle nostre aziende, perchè non farlo nello stato?
<i> 5/10/2011 10:16</i>

1.Il capitalismo di Stato tende a limitare la competitività e a fornire incarichi per meriti politici e non x capacità manageriali.
2. La competitività delle imprese italiane è penalizzata dallo scarso investimento in ricerca/innovazione.
3. favorire fiscalmente le imprese che crescono attraverso l'innovazione.
<i> 5/10/2011 9:23</i>

Vedere la Parmalat in mani francesi brucia. Ma avremmo dovuto pensarci prima sia attraverso un'adeguata politica industriale che in Italia manca, per il latte e per molti altri settori, sia attraverso la promozione fiscale dell'aggregazione d'imprese che in Italia non si è mai veramente fatta. Capisco le imprese familiari e il loro desiderio di controllo che rema contro la dimensione ma, proprio per questo, mi sarei aspettato un quadro normativo fiscale fortemente a vantaggio del capitale di rischio e delle aggregazioni d'imprese.
Se non superiamo questo punto (incentivi robusti alle aggregazioni d'imprese) continueremo ad illuderci che piccolo è bello mentre a me è sempre sembrato molto brutto.
<i> 5/10/2011 9:3</i>

lo stato dovrebbe aiutare e favorire l' impresa delegiferando e attuando normative chiare e velocemente applicabili e favorire le infrastruttre
<i> 5/9/2011 18:38</i>

Il capitalismo di stato, al di la del controllo sui sevizi strategici, non si chiama altro che protezionismo con la conseguente inibizione di sviluppo competitivo.
<i>G B 5/9/2011 18:29</i>

E' opportuno sottolineare la differenza tra liberalizzazioni e privatizzazioni ed il fatto che i privati non sempre hanno dato buona prova di se, come pure sono convinto che la proprietà pubblica non sia certo la madre di tutte le disgrazie. Ma ci sono alcuni legami evidenti che nello spazio riservato ad una risposta ai commenti sono costretto a sintetizzare in poche parole, e mi scuso.
Innanzitutto, senza un apparato di regole degno di tal nome non si va da nessuna parte ed il dato preoccupante risiede soprattutto nel fatto che, cadute nel dimenticatoio le liberalizzazioni, si diffondono forme di "ripubblicizzazione" che inevitabilmente generano un palese conflitto di interessi tra lo stato proprietario e lo stato regolatore. Mettendola in altri termini: quale capacità potrà avere in futuro, nella produzione di regole per garantire un equilibrato gioco concorrenziale, chi da quelle regole viene colpito perchè perde una posizione di forza?
A mio parere, lo stato si deve muovere per condizionare la morfologia del sistema con le leve della politica industriale e deve garantire la concorrenza con la leva delle regole, ma se si mette a giocare anche lui finisce con il far male tutte e due le cose!
Infine, taluni portano a sostegno delle tesi del nuovo capitalismo di stato il progetto della Big Society inglese. Effettivamente, si prevede al suo interno la nascita di un soggetto, che dovrebbe avere il compito però di finanziare solo e soltanto le iniziative del no profit. Da quanto mi risulta, è però ancora una proposta al centro di discussioni, e comunque non sono al momento definite le caratteristiche istituzionali che questo soggetto dovrebbe rivestire.
<i>Carlo Martelli 5/9/2011 18:7</i>